lunedì 12 gennaio 2009

Ingiustizia italiana

Luca Delfino, trentatreenne assassino della ex fidanzata, è stato condannato a soli sedici anni ed otto mesi di reclusione; più cinque mesi di pseudo-manicomio. Il pubblico ministero aveva chiesto l'ergastolo, per omicidio volontario: quaranta coltellate inferte alle spalle. Come mai il giudice ha trattato con i guanti il delinquente? Come mai ha usufruito di una riduzione di pena? Perché accettare il patteggiamento quando la colpevolezza del soggetto non è in dubbio? La vittima aveva già denunciato le minacce ricevute dal Delfino. La polizia aveva chiesto invano l'arresto del criminale. Ma no! Doveva scapparci prima il morto. Luca Delfino aveva presumibilmente sgozzato un'altra donna, anch'essa sua ex fidanzata. Lo processeranno nuovamente, oppure il primo omicidio glielo abbuoneranno del tutto? Il Delfino ha fatto il matto fin dall'inizio, ed il giudice gli ha creduto. Probabilmente è stato il solo a bersi la pagliacciata del teppista. Quando si parla di riforma della giustizia, che trova d'accordo Fini, Veltroni e Violante, ci si riferisce alla certezza della pena. Per l'omicidio volontario, sedici anni sono decisamente pochi. Quel giudice dovrebbe cambiare mestiere. La famiglia della vittima, ovviamente disgustati, ricorreranno in appello. La separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici esiste già: i secondi hanno un approccio decisamente troppo soft al codice penale. Che sia un retaggio dei trascorsi universitari sessantottini? Esami di gruppo, superati con il diciotto politico?

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