mercoledì 15 aprile 2009

IL CAPITALISMO CHE DIVORA SE STESSO

I comunisti di una volta auspicavano che il capitalismo riuscisse ad ammazzarsi con le proprie mani. In quel periodo non si parlava ancora di economia globale, ma il capitale era già multinazionale. Quaranta anni or sono gli operai si accorsero che il boom economico aveva convogliato ricchezza prevalentemente nelle tasche dei borghesi. Alla fine degli anni settanta, gli operai scesero in piazza, rivendicando un salario più equo. Avessero rivendicato una partecipazione azionaria all'interno della FIAT sarebbe stato meglio. Anche gli studenti scesero in piazza, ma quelli che potevano permettersi l'università erano borghesi come i loro padri. Gli studenti fecero tante chiacchiere, ma non furono in grado di riscrivere i libri di testo. Per cui oggi, quaranta anni dopo, studiamo ancora una storia scritta da servi del potere costituito. Dopo essere sopravvissuti alla scuola, dobbiamo faticare non poco per ricostruire la storia vera, molto diversa da quella scolastica. Cosa fecero allora gli studenti sessantottini? Superarono esami di gruppo, con i diciotto politici, e si laurearono. Ottennero quella consacrazione borghese che odiavano solo a parole. Risultato: tanti caproni infilati a forza nelle classi dirigenti. I capitalisti di allora si spaventarono relativamente per l'attivismo degli operai, e si ripromisero che le generazioni a venire sarebbero state più docili. Così si iniziò ad operare a livello mediatico per rimbecillirci fin da piccoli: giornali, televisione, cinema, pubblicità, politica. Ora che il capitalismo ha ottenuto di plasmarci tutti in forma di popolo degli ipermercati, è riuscito altresì a divorare se stesso. Come ha fatto? La natura del capitalismo è predatrice, e questa è la premessa. Può ottenere profitti solo invadendo e distruggendo. Dopo averlo fatto nella patria d'origine, ogni multinazionale si è estesa come una metastasi all'estero. Fino a che le mostruose amebe si sono scontrate, e parzialmente fagocitate a vicenda. Però, nel frattempo, anche i sottosviluppati hanno imparato a costruire auto, e le nostre non le comprerebbero neppure a pagarli. Anzi rischiamo di dover comprare le auto indiane, che costano come un nostro motorino, ma forse consumano meno. Poco prima della crisi economica attuale, sentivamo ancora parlare di espansione. Ora, se va bene, riusciamo a non chiudere le fabbriche. Ora che il mercato è veramente globale, è difficile tirare pacchi a qualcuno, perché ormai quasi tutti sanno dove comprare auto che costano meno delle nostre. Se le costruiscono da soli, o le barattano con una tonnellata di banane. Ci vuole poco a costruire un'automobile: è una tecnologia ultra centenaria, e chi se ne frega se la macchinina della Tata non ha l'aria condizionata? Basta aprire i finestrini. Gli indiani circoleranno in cinque sulla Nano, alla spaventosa velocità di centocinque orari. Potrebbero farlo se avessero le autostrade. Ora come ora, devono fare attenzione alle buche ed agli elefanti che non badano ai segnali stradali. Potremmo, noi italici, puntare sull'eccellenza, ma ci restano solo i prodotti della cucina mediterranea. Non riusciamo ad esportarli in Cina, perché deperiscono durante il viaggio. Invece i cinesi ci esportano le loro specialità per stomaci blindati. Come se non bastasse, i cinesi oltre agli involtini di riso, hanno esportato anche le loro persone. Così da invasori, che eravamo o che volevamo essere, siamo diventati terra di conquista. Avessimo ancora un'informatica, potremmo produrre qualcosa di utile, a basso prezzo. Ma l'informatica non l'abbiamo più, da quando l'Olivetti è passata nelle mani di un capitalista d'assalto, che, un po' alla volta ma con metodo ed impegno, ha mandato in malora Ivrea e zone limitrofe.

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